Robert Stewart

Robert Stewart

Forse, uno dei più importanti giovani musicisti emersi nelle ultime decadi
Billy Higgins

«Robert Stewart comincia ormai a farsi un nome negli Stati Uniti, nazione certamente e notoriamente poco ospitale per chi non possiede talento. Protègè di Billy Higgins prima, e poi di Quincy Jones, è musicista di nerbo: sonorità piena, fraseggio ben strutturato, soprattutto un gusto accentuato per la tradizione africana-americana, coniugato con una non meno acuta dei procedimenti improvvisativi sviluppatisi a partire dagli anni Sessanta. Il suo, se vogliamo, è un mainstream molto contemporaneo, cui non manca né la cognizione dell’hard-bop più corposo, né la coscienza delle innovazioni armoniche del periodo post­modale o delle libertà acquisite con quell’ulteriore evoluzione del be-bop che è stato il free-jazz.
In poche parole, Stewart è un tradizionalista. Nel senso migliore del termine: egli non solo possiede, cioè, un ampio bagaglio di nozioni sulla tradizione africana-americana, ma di questo bagaglio (che non si riduce al mero dominio di un vocabolario tecnico-linguistico) non intende disfarsene perché, oltre ad amarlo, esso costituisce il nucleo essenziale della sua personalità musicale. Sia chiaro, quanto detto vale per ogni cultore dell’improvvisazione jazzistica: ma l’adesione a determinate regole può, più o meno, variare a seconda della personalità, dell’estrazione culturale (come affermava Jaurès, è la forza della passione a creare la forza della regola). In Stewart vi è un’adesione completa alla cultura tradizionale africana-americana: non solo perché egli stesso è un africano-americano (questo può, talvolta, voler dire meno di quanto si pensi), ma perché la sua fluentissima idiomaticità, ancorché lievemente acerba, è letteralmente imbevuta del linguaggio popolare tradizionale africano-americano, come si evince all’ascolto delle notevoli inflessioni ritmiche con cui egli arricchisce l’improvvisazione su un tema come Serene, tanto per citare un esempio. Ed è questa naturale coscienza del proprio passato a fare la differenza, a fare di Stewart, come tanti altri prima di lui, un autentico artista africano-americano; perché in Occidente il progresso culturale è spesso stato inteso come vitalità del negativo, secondo le ben note parole di Apollinaire: “Non possiamo portarci dietro dappertutto il cadavere di nostro padre”. Il rovescio persino speculare di quanto accade nella tradizione africana-americana, dove – casomai – il metaforico cadavere del padre viene ricordato, rispettato e venerato.
Dotato di un vocabolario che potremmo definire polistilista (si avvertono echi di Coltrane e Dexter Gordon, ma anche – talvolta – la corposa e angolosa linearità di un Rollins), Stewart esibisce un fraseggio energico, persino muscolare nella sua esuberanza: di una filigrana grossa, piena quanto ruvida, che si piega con mirabile flessibilità a molteplici esigenze espressive e che sa farsi carico anche di una veemente ancestralità.
Qualcuno, più accorto di altri, potrà avvertire in taluni passi delle asperità, dei piccoli cenni e accenni che sono palpabili testimonianze della giovane età di questo strumentista: lungi da diminuire il valore di questi lavori, essi mi paiono in grado di sottolinearne invece la notevolezza. Capita certamente assai di rado che un artista riesca – ai primi passi ufficiali – ad esprimersi con tale omogeneità di intenti e di risultati (musica, peraltro, così tipica di Los Angeles, e non manca persino un accenno alle sonorità tipiche di sassofonisti dell’area, come Harold Land), soprattutto proiettando così tanto di sé l’immagine di una personalità musicale già matura e pure capace di promettere ulteriore, ancora più significativa, maturazione».
Gianni Morelenbaum Gualberto