Pablo Bobrowicky
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È forse l’unico musicista che, a mio parere e gusto, è riuscito nell’intento di suonare un jazz nel quale si innescano in modo estremamente convincente e organico elementi della grande tradizione musicale latino-americana
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Franco D’Andrea
«La sua sensibilità ritmica è eccellente. È molto semplice suonare un solo quando lui accompagna con il suo ritmo. Sviluppa benissimo le sue idee! Per me questa è la cosa più importante e ciò lo aiuterà a trovare la sua voce nel jazz e il suo stile personale per esprimersi. Quando improvvisa è molto melodico. Pablo ascolta e reagisce molto bene. Abbiamo suonato Straight No Chaser medium e lui ha eseguito un solo formidabile. Abbiamo suonato anche altri temi insieme per un bel po’ di tempo ed è stato perfetto. È un vero piacere ascoltarlo».
Jim Hall
«La caratteristica principale di Pablo mi sembra essere l’estrema naturalezza delle cose che suona, l’originalità delle frasi e nell’insieme la sua grande pertinenza jazzistica. C’è tutto del jazz di tutti i tempi ma anche una introduzione lessicalmente pertinente di ritmi insoliti come la Murga, Candombè, Chacarera, Zamba e altri ritmi di derivazione africana e afroindia, collocati principalmente nelle zone dell’Argentina che confinano con l’Uruguay, Paraguay, Brasile, Bolivia. Pablo suona indifferentemente, a seconda delle necessità espressive del brano, sul quattro con uno swing che darebbe dei numeri a parecchi swinger di New York e di Harlem sia sui tempi dispari che sugli spazi. In altre parole sul tempo e sul ritmo non ha alcun problema, possiede il senso della costruzione melodica e dell’architettura dell’assolo e non copia nessuno pur avendo, come tutti, riconoscibili influenze che si stemperano in una originale e personale musicalità che privilegia il feeling all’esibizione tecnica».
Sergio Veschi
«Sono proprio disposto a rimborsare gli ascoltatori che non rimarranno soddisfatti dagli standard jazzistici registrati da Pablo Bobrowicky. Il chitarrista argentino, che lavora per un’etichetta italiana, non ci propone versioni latine di Monk, Duke e Dizzy; piuttosto, ci pone di fronte a una visione prospettica della musica della seconda metà del XX secolo. L’ispirazione di Bobrowicky prende le mosse da Charlie Christian, Wes Montgomery e Jim Hall. È sui loro stili che si è formata la destrezza dell’argentino. Il suo swing deriva da Christian, il profondo groove da Montgomery, mentre, come Hall, Bobrowicky è più a suo agio con le ballad e i motivi lenti. Quando suona un blues, posso sentire lo spirito di Tal Farlow. Il chitarrista respira jazz statunitense, lo fa scorrere nel suo grande cuore argentino e lo restituisce poi non come una traduzione ma come un paesaggio dell’anima. Da dove viene il jazz di questo nuovo secolo? Bobrowicky difende con fermezza l’ispirazione maturata in luoghi fuori mano, lontani dall’incestuosa scena newyorkese. La distanza concessa ai jazzisti europei come a quelli sudamericani permette loro una diversa prospettiva, un serio mutamento di orizzonte e un libero sviluppo di idee. Se poi le parole vengono meno, è solo perché si tratta di un grandioso raggiungimento musicale».
Mark Corroto, All About Jazz
«Artista in grado di farsi apprezzare per il suo approccio originale anche al più ortodosso linguaggio jazzistico (come provano le elaborazioni dei due celebri temi monkiani o la breve, quasi folgorante collaborazione con Bobby Watson), Bobrowicky entusiasma laddove l’improvvisazione di matrice jazzistica si fa duttile strumento di ricerca, di connessione con altre tradizioni culturali. L’eredità culturale di Bobrowicky, di origine probabilmente europea (polacca a giudicare dal cognome), di matrice ancora più probabilmente ebraica, non svolge alcun ruolo preponderante, ma dialoga alla pari con l’esperienza multietnica così caratteristica della moderna cultura argentina: gli echi degli arcani, ora lievi, ora pulsanti, ritmi andini e afro-brasiliani permea composizioni/improvvisazioni dal respiro vasto quanto la terra che le hanno prodotte. Con Bobrowicky sembra giungere a noi un nuovo esploratore musicale. La via che egli pare volerci indicare, potrà probabilmente portare ad altre ricchezze oggi ancora sconosciute».
Gianni Morelenbaum Gualberto
«Non è facile rendere un’idea precisa di South of the World a parole. Si tratta di un prezioso documento del trio Bobrowicky-Minichillo-Agudo che testimonia una delle migliori espressioni della ‘via al jazz’ del sud del mondo. È avanguardia, ma non nell’accezione comunemente riconosciuta. A differenza dell’avanguardia che conosciamo, questa musica, geograficamente quasi ai confini del mondo, è spontanea e stupisce l’ascoltatore senza voler stupire. Questa interessante playlist, nella quale, in tre brani, trovano spazio anche i sassofoni, alto e tenore, di Bobby Watson e Sam Newsome (in un format pianoless trad-oriented), si snoda fra folklore popolare (Casinha pequenina), composizioni originali dai più svariati sapori e standards di Monk (Straight No Chaser e Well, You Needn’t). La cosa che inchioda l’ascoltatore alla sedia è la coerenza del dialogo a tre che non passa per sofisticati arrangiamenti né riempie di orpelli il discorso musicale. Bobrowicky è un eccellente chitarrista influenzato da Jim Hall e dalla musica della sua terra; Bobro possiede il lirismo e il calore delle proprie radici ed è dotato di una tecnica ineccepibile, un ricco linguaggio e una profonda conoscenza della storia del jazz, così come Minichillo e Agudo. Il messaggio musicale del trio è il veicolo di pensieri e stati d’animo nascosti e inconsci, il tutto organizzato in un dialogo interno (niente a vedere con la nozione convenzionale di interplay), diretto verso gli altri, verso chi ascolta, innestando melodie monkiane in un background poliritmico, frasi angolari e spigolose in un rigorosissimo contesto armonico, come è d’uopo per il solista in contesti pianoless. La loro musica, pur così lontana, ha la potenza e la meraviglia di avvicinare l’emittente e il destinatario, portandoli a un grado più elevato di armonia, creando una sorta di vicinanza comunicativa. Probabilmente è anche questo fatto che rende così importante questa musica: qui si può valutare e palpare la natura della relazione fra musicista e fruitore. Merita inoltre una menzione speciale il ruolo che gioca la marimba suonata da Norberto Minichillo, il quale riesce armoniosamente nel difficile compito di integrare i linguaggi musicali stranieri con il discorso molto sviluppato e strutturato del jazz senza cadere in una di quelle coloriture musicali che non danno granché né al jazz né al sostrato etnico a cui si ispirano. Potrei estendere queste considerazioni anche a Luis Agudo, aggiungendo comunque che egli è riuscito in questa opera con un’efficacia senza eguali: South Of The World testimonia ampiamente l’autorevolezza di questo musicista che ha saputo emancipare le percussioni dal classico ruolo decorativo e supplementare, innestandosi con maestria nell’ordito sonoro, sostenendolo e talvolta indicandone la via. In questo disco Agudo si rivela anche un batterista molto personale. Ultimamente un giovanotto di nome Tony Scott si è interessato a questo disco (e lo ha voluto!), colpito in modo particolare dallo stile di Minichillo alla marimba. Forse un altro episodio di Music for Zen Meditation?»
Tony Mancuso, JazzNotice
«La sua sensibilità ritmica è eccellente. È molto semplice suonare un solo quando lui accompagna con il suo ritmo. Sviluppa benissimo le sue idee! Per me questa è la cosa più importante e ciò lo aiuterà a trovare la sua voce nel jazz e il suo stile personale per esprimersi. Quando improvvisa è molto melodico. Pablo ascolta e reagisce molto bene. Abbiamo suonato Straight No Chaser medium e lui ha eseguito un solo formidabile. Abbiamo suonato anche altri temi insieme per un bel po’ di tempo ed è stato perfetto. È un vero piacere ascoltarlo».
Jim Hall
«La caratteristica principale di Pablo mi sembra essere l’estrema naturalezza delle cose che suona, l’originalità delle frasi e nell’insieme la sua grande pertinenza jazzistica. C’è tutto del jazz di tutti i tempi ma anche una introduzione lessicalmente pertinente di ritmi insoliti come la Murga, Candombè, Chacarera, Zamba e altri ritmi di derivazione africana e afroindia, collocati principalmente nelle zone dell’Argentina che confinano con l’Uruguay, Paraguay, Brasile, Bolivia. Pablo suona indifferentemente, a seconda delle necessità espressive del brano, sul quattro con uno swing che darebbe dei numeri a parecchi swinger di New York e di Harlem sia sui tempi dispari che sugli spazi. In altre parole sul tempo e sul ritmo non ha alcun problema, possiede il senso della costruzione melodica e dell’architettura dell’assolo e non copia nessuno pur avendo, come tutti, riconoscibili influenze che si stemperano in una originale e personale musicalità che privilegia il feeling all’esibizione tecnica».
Sergio Veschi
«Sono proprio disposto a rimborsare gli ascoltatori che non rimarranno soddisfatti dagli standard jazzistici registrati da Pablo Bobrowicky. Il chitarrista argentino, che lavora per un’etichetta italiana, non ci propone versioni latine di Monk, Duke e Dizzy; piuttosto, ci pone di fronte a una visione prospettica della musica della seconda metà del XX secolo. L’ispirazione di Bobrowicky prende le mosse da Charlie Christian, Wes Montgomery e Jim Hall. È sui loro stili che si è formata la destrezza dell’argentino. Il suo swing deriva da Christian, il profondo groove da Montgomery, mentre, come Hall, Bobrowicky è più a suo agio con le ballad e i motivi lenti. Quando suona un blues, posso sentire lo spirito di Tal Farlow. Il chitarrista respira jazz statunitense, lo fa scorrere nel suo grande cuore argentino e lo restituisce poi non come una traduzione ma come un paesaggio dell’anima. Da dove viene il jazz di questo nuovo secolo? Bobrowicky difende con fermezza l’ispirazione maturata in luoghi fuori mano, lontani dall’incestuosa scena newyorkese. La distanza concessa ai jazzisti europei come a quelli sudamericani permette loro una diversa prospettiva, un serio mutamento di orizzonte e un libero sviluppo di idee. Se poi le parole vengono meno, è solo perché si tratta di un grandioso raggiungimento musicale».
Mark Corroto, All About Jazz
«Artista in grado di farsi apprezzare per il suo approccio originale anche al più ortodosso linguaggio jazzistico (come provano le elaborazioni dei due celebri temi monkiani o la breve, quasi folgorante collaborazione con Bobby Watson), Bobrowicky entusiasma laddove l’improvvisazione di matrice jazzistica si fa duttile strumento di ricerca, di connessione con altre tradizioni culturali. L’eredità culturale di Bobrowicky, di origine probabilmente europea (polacca a giudicare dal cognome), di matrice ancora più probabilmente ebraica, non svolge alcun ruolo preponderante, ma dialoga alla pari con l’esperienza multietnica così caratteristica della moderna cultura argentina: gli echi degli arcani, ora lievi, ora pulsanti, ritmi andini e afro-brasiliani permea composizioni/improvvisazioni dal respiro vasto quanto la terra che le hanno prodotte. Con Bobrowicky sembra giungere a noi un nuovo esploratore musicale. La via che egli pare volerci indicare, potrà probabilmente portare ad altre ricchezze oggi ancora sconosciute».
Gianni Morelenbaum Gualberto
«Non è facile rendere un’idea precisa di South of the World a parole. Si tratta di un prezioso documento del trio Bobrowicky-Minichillo-Agudo che testimonia una delle migliori espressioni della ‘via al jazz’ del sud del mondo. È avanguardia, ma non nell’accezione comunemente riconosciuta. A differenza dell’avanguardia che conosciamo, questa musica, geograficamente quasi ai confini del mondo, è spontanea e stupisce l’ascoltatore senza voler stupire. Questa interessante playlist, nella quale, in tre brani, trovano spazio anche i sassofoni, alto e tenore, di Bobby Watson e Sam Newsome (in un format pianoless trad-oriented), si snoda fra folklore popolare (Casinha pequenina), composizioni originali dai più svariati sapori e standards di Monk (Straight No Chaser e Well, You Needn’t). La cosa che inchioda l’ascoltatore alla sedia è la coerenza del dialogo a tre che non passa per sofisticati arrangiamenti né riempie di orpelli il discorso musicale. Bobrowicky è un eccellente chitarrista influenzato da Jim Hall e dalla musica della sua terra; Bobro possiede il lirismo e il calore delle proprie radici ed è dotato di una tecnica ineccepibile, un ricco linguaggio e una profonda conoscenza della storia del jazz, così come Minichillo e Agudo. Il messaggio musicale del trio è il veicolo di pensieri e stati d’animo nascosti e inconsci, il tutto organizzato in un dialogo interno (niente a vedere con la nozione convenzionale di interplay), diretto verso gli altri, verso chi ascolta, innestando melodie monkiane in un background poliritmico, frasi angolari e spigolose in un rigorosissimo contesto armonico, come è d’uopo per il solista in contesti pianoless. La loro musica, pur così lontana, ha la potenza e la meraviglia di avvicinare l’emittente e il destinatario, portandoli a un grado più elevato di armonia, creando una sorta di vicinanza comunicativa. Probabilmente è anche questo fatto che rende così importante questa musica: qui si può valutare e palpare la natura della relazione fra musicista e fruitore. Merita inoltre una menzione speciale il ruolo che gioca la marimba suonata da Norberto Minichillo, il quale riesce armoniosamente nel difficile compito di integrare i linguaggi musicali stranieri con il discorso molto sviluppato e strutturato del jazz senza cadere in una di quelle coloriture musicali che non danno granché né al jazz né al sostrato etnico a cui si ispirano. Potrei estendere queste considerazioni anche a Luis Agudo, aggiungendo comunque che egli è riuscito in questa opera con un’efficacia senza eguali: South Of The World testimonia ampiamente l’autorevolezza di questo musicista che ha saputo emancipare le percussioni dal classico ruolo decorativo e supplementare, innestandosi con maestria nell’ordito sonoro, sostenendolo e talvolta indicandone la via. In questo disco Agudo si rivela anche un batterista molto personale. Ultimamente un giovanotto di nome Tony Scott si è interessato a questo disco (e lo ha voluto!), colpito in modo particolare dallo stile di Minichillo alla marimba. Forse un altro episodio di Music for Zen Meditation?»
Tony Mancuso, JazzNotice