Dave Liebman

Dave Liebman

Liebman ci mostra un lato sconosciuto di classici immortali. Il suo sax soprano privilegia le linee più essenziali e rilevanti del percorso compositivo. Una rilettura avvincente, a conferma di una vitalità artistica coraggiosa e incisiva
Paolo Teodori

«Dal sassofono di Liebman scaturisce un torrente di emozioni: riesce a trasformare lo standard più frequentato in qualcosa di magico e irripetibile. Le sue sonorità sono delicate, lineari, misurate. Il suo gestire l’alternanza tra note e silenzi fra affermazioni e sottintesi è sapiente e impareggiabile, così come il suo senso ritmico capace di sorprenderti ogni volta. Jazz in altre parole. Se vi pare poco…».
Marco Giorgi, AudioReview

«Non soltanto Steve Lacy illumina il panorama del sax soprano. Da molti anni, infatti, tra chi si dedica esclusivamente a questo strumento c’è un altro grande jazzista bianco contemporaneo, Dave Liebman. La sua prodigiosa tecnica strumentale e la sua originale sensibilità espressiva sono via via cresciute e oggi è difficile stilare una graduatoria tra i due. La riuscita serie di incisioni di Liebman per la Red Records incentrate su standard prosegue con questo disco dedicato al jazz latino. Le interpretazioni del quintetto privilegiano l’ardore e il fuoco piuttosto che il colloquio sommesso e il sottinteso. Il soprano sensuale e profondo del leader, è ben assecondato dal pianoforte di Danilo Perez che spicca nell’eccellente sezione ritmica». Besame mucho
Claudio Donà, Musica Jazz.

«Sempre invitante ma ogni volta difficile, nel jazz, la pratica del duo. Ogni dubbio è comunque scacciato dall’ascolto. Raro vedere due jazzisti filare così d’amore e d’accordo, intendersi, esprimersi. E il feeling dev’essere stato ben solido visto che i due rarissimamente si erano incontrati e se tutte le prove per questo pregevolissimo, incantevole disco si erano ridotte a un paio d’ore, il pomeriggio precedente, a Reggio Emilia, dove il polistrumentista si trovava per un seminario. E soprattutto, se questi cinquantadue minuti ad altissimo livello sono stati tratti da una seduta serale durata non più di tre ore! I due protagonisti, accordatisi sull’idea di utilizzare un materiale di standard (sia pure non tutti brani famosi), si sono spartiti anche l’impegno progettuale e costruttivo, importante qui non meno dell’improvvisazione. (…) E non è stato superficiale davvero, l’intervento sui testi. Sono state riscritte le armonizzazioni dei brani, staccandosi da quelle abituali; sono state aggiunte delle melodie; la struttura di Get out of Town è stata accorciata di due battute per darle più agilità; sono stati scelti ritmi complessi (come per esempio il 12/8 di una parte iniziale di Caravan), sono state predisposte tensioni espressionistiche (come nell’avvio del pezzo monkiano) e così via. Ma il tutto senza tradimenti, rispettando cioè l’atmosfera ellingtoniana di Don’t You Know I Care, il brio vagamente dixieland di Sweet Georgia Brown, la sottile malinconia di Autumn Leaves. I temi possono anche non essere enunciati, possono emergere qua e là, all’improvviso, ma conservano tutta la loro importanza. Da non sottovalutare certo, l’arte solistica. Liebman, che sembra concentrarsi da tempo al sax soprano, ha squarci melodici di sopraffina bellezza, mentre D’Andrea fa, sulla scena discografica, un imperioso ritorno, paragonabile ai più grandi exploit della sua carriera. Anzi, alternando libertà e disciplina, potrebbe addirittura averci dato l’opera più emblematica della sua splendida maturità». Nine again
Gian Mario Maletto, Musica Jazz

«Dal sassofono di Liebman scaturisce un torrente di emozioni: riesce a trasformare lo standard più frequentato in qualcosa di magico e irripetibile. Le sue sonorità sono delicate, lineari, misurate. Il suo gestire l’alternanza tra note e silenzi fra affermazioni e sottintesi è sapiente e impareggiabile, così come il suo senso ritmico capace di sorprenderti ogni volta. Jazz in altre parole. Se vi pare poco…».
Marco Giorgi, AudioReview

«Non soltanto Steve Lacy illumina il panorama del sax soprano. Da molti anni, infatti, tra chi si dedica esclusivamente a questo strumento c’è un altro grande jazzista bianco contemporaneo, Dave Liebman. La sua prodigiosa tecnica strumentale e la sua originale sensibilità espressiva sono via via cresciute e oggi è difficile stilare una graduatoria tra i due. La riuscita serie di incisioni di Liebman per la Red Records incentrate su standard prosegue con questo disco dedicato al jazz latino. Le interpretazioni del quintetto privilegiano l’ardore e il fuoco piuttosto che il colloquio sommesso e il sottinteso. Il soprano sensuale e profondo del leader, è ben assecondato dal pianoforte di Danilo Perez che spicca nell’eccellente sezione ritmica». Besame mucho
Claudio Donà, Musica Jazz.

«Sempre invitante ma ogni volta difficile, nel jazz, la pratica del duo. Ogni dubbio è comunque scacciato dall’ascolto. Raro vedere due jazzisti filare così d’amore e d’accordo, intendersi, esprimersi. E il feeling dev’essere stato ben solido visto che i due rarissimamente si erano incontrati e se tutte le prove per questo pregevolissimo, incantevole disco si erano ridotte a un paio d’ore, il pomeriggio precedente, a Reggio Emilia, dove il polistrumentista si trovava per un seminario. E soprattutto, se questi cinquantadue minuti ad altissimo livello sono stati tratti da una seduta serale durata non più di tre ore! I due protagonisti, accordatisi sull’idea di utilizzare un materiale di standard (sia pure non tutti brani famosi), si sono spartiti anche l’impegno progettuale e costruttivo, importante qui non meno dell’improvvisazione. (…) E non è stato superficiale davvero, l’intervento sui testi. Sono state riscritte le armonizzazioni dei brani, staccandosi da quelle abituali; sono state aggiunte delle melodie; la struttura di Get out of Town è stata accorciata di due battute per darle più agilità; sono stati scelti ritmi complessi (come per esempio il 12/8 di una parte iniziale di Caravan), sono state predisposte tensioni espressionistiche (come nell’avvio del pezzo monkiano) e così via. Ma il tutto senza tradimenti, rispettando cioè l’atmosfera ellingtoniana di Don’t You Know I Care, il brio vagamente dixieland di Sweet Georgia Brown, la sottile malinconia di Autumn Leaves. I temi possono anche non essere enunciati, possono emergere qua e là, all’improvviso, ma conservano tutta la loro importanza. Da non sottovalutare certo, l’arte solistica. Liebman, che sembra concentrarsi da tempo al sax soprano, ha squarci melodici di sopraffina bellezza, mentre D’Andrea fa, sulla scena discografica, un imperioso ritorno, paragonabile ai più grandi exploit della sua carriera. Anzi, alternando libertà e disciplina, potrebbe addirittura averci dato l’opera più emblematica della sua splendida maturità». Nine again
Gian Mario Maletto, Musica Jazz